«La flessibilità è il tempo di un nuovo potere che conduce al disordine, non alla libertà dai vincoli»
In questa frase di Richard Sennet le ragioni del no a una riforma del lavoro che mette in forte discussione il valore sociale del lavoro, la tutela dei diritti fondamentali e la dignità dei lavoratori.
La crisi internazionale e l’aumento della domanda di lavoro hanno fornito una giustificazione alla progressiva deresponsabilizzazione delle politiche di gestione delle così definite — con un termine orrendo — risorse umane.
Le imprese hanno fatto ricorso a forme di flessibilità anche dove non strettamente necessario in nome della redditività, della difesa della propria quota di mercato e della salvaguardia dei contratti di lavoro stabili in essere, precarizzando e impoverendo lavoratori giovani e meno giovani.
Questo governo tecnico fatto di lacrime e professori ci aveva promesso che nulla sarebbe stato più come prima e che il problema dell’incertezza occupazionale sarebbe stato risolto. Invece…
“Le bugie hanno il naso lungo ma le gambe corte” esclama nelle aule il professore che coglie impreparato lo studente. Bene, ora sono i lavoratori che rivolgono questa frase ai professori che siedono al governo. Queste bugie avranno le gambe corte perché non c’è ripresa economica senza occupazione, perché nessuna delle tante forme di lavoro atipico è stata eliminata come annunciato, perché gli ammortizzatori sociali non sono stati estesi universalmente (anzi) e perché nulla è stato fatto per incentivare la creazione di posti di lavoro stabili. Ci hanno persino raccontato che le aziende non assumono perché nel nostro Paese non esiste “flessibilità in uscita”. Bene, guardiamo all’Europa.
L’OCSE ha elaborato una ricerca sul rapporto tra protezione legislativa del lavoro e investimenti esteri in entrata.
La protezione contro il licenziamento individuale dei lavoratori a tempo indeterminato Protection of permanent workers against individual dismissal è stata misurata su una scala che va da 1 a 6. Per l’Italia questo indice è risultato essere 1,69; per la Francia 2,60 e per la Germania 2,85. Ora, se gli investimenti diretti esteri (IDE) sono legati alla protezione del lavoro Francia e Germania dovrebbero registrare livelli di IDE in rapporto al Pil inferiori all’Italia e, più in generale, a Paesi con una legislazione di protezione del lavoro più bassa; invece l’Italia fa registrare un livello di IDE in entrata in rapporto al Pil del 16,4%, inferiore al 20,4% della Germania, e nettamente inferiore al 39% della Francia nonostante questi Paesi abbiano un legislazione più rigida in materia di lavoro. Il problema quindi sta altrove.
Suggerire le risposte ai professori potrebbe sembrare impudente ma forse la lentezza burocratica, l’assenza di infrastrutture adeguate, gli elevati costi dell’energia e dei carburanti e la presenza di un costo occulto rappresentato dalla criminalità organizzata e dall’evasione fiscale potrebbero essere delle valide risposte.
Per quanto riguarda il tema dell’art.18, questione che un governo responsabile non avrebbe dovuto nemmeno porre, l’incertezza tra reintegra e non reintegra rimane. La motivazione economica al licenziamento o c’è o non c’è.
Come si fa a distinguere tra una ragione infondata o manifestamente infondata?
Qual è il discrimine dal punto di vista giuridico?
Se il licenziamento è infondato, anche se non manifestamente infondato, è nullo ma non necessariamente il lavoratore otterrebbe la reintegra.
Infine la soluzione dell’aumento dell’aliquota contributiva per gli iscritti alla gestione separata dell’Inps — fino a raggiungere, nel 2018, quella attualmente applicata ai lavoratori subordinati — non fungerà di certo da “deterrente” nei confronti di quei datori di lavoro che ricorrono al lavoro atipico oltre che per risparmiare sul costo del lavoro, per non garantire ferie, malattia, maternità, diritti sindacali, garanzie occupazionali, si potrebbe continuare. E si fa fatica a credere che di questo il ministro Fornero non se ne sia accorta.
Non sono solo questi i punti deboli e i provvedimenti opinabili di questa riforma, ce ne sono altri. Quello che va però evidenziato è che si sta chiedendo a giovani, lavoratori dipendenti e pensionati di farsi carico di una crisi che li aveva già pesantemente indeboliti. Il vero nodo della questione è il potere d’acquisto di salari e pensioni (quando ci sono) e l’occupazione. Recessione e stagflazione, cioè combinazione di inflazione e stagnazione, non si combattono stringendo la cinghia degli ammortizzatori sociali e incentivando la precarietà.
Il professore non raggiunge la sufficienza, è meglio che si presenti più preparato al prossimo appello.
Gaia Angelo